Bruzzone: "Due anni di amore tossico. Anch’io sono stata umiliata"

Scritto il 12/07/2025
da Monica Mosca

La criminologa Roberta Bruzzone: "Nelle difficoltà si è vulnerabili, ne sono uscita. Amo dominare, ma mio marito è tosto"

Vista di persona, di lei ti colpiscono subito gli occhi, grigi e glaciali, sottolineati con la matita nera, e la fisicità importante. E poi la parlata, con quella cadenza della sua Liguria che non ha perso mai: passa con la stessa efficacia dalla descrizione dell'omicidio più efferato alla battuta ironica. Roberta Bruzzone è la criminologa e psicologa forense più famosa della Tv, oltre che consulente in decine di casi di cronaca nera. Per una volta, ha accettato di parlare del suo privato, di cui si conosce poco: un'indagine sulla donna che delle indagini è regina. E fa una promessa: «Non mi avvarrò della facoltà di non rispondere».

Le donne sono il tuo pubblico più affezionato e spesso le vittime dei casi di cui ti occupi.

«Le donne sono appassionatissime di true crime e si documentano in ogni modo. Quando incontrano me sulla loro strada, mi riconoscono come autorevole e si fidano. Mi attribuiscono proprio un ruolo nella loro vita, è una responsabilità. Da anni mi occupo anche di spiegare loro come riconoscere e liberarsi da un amore tossico, dai compagni narcisi e disturbati che possono diventare carnefici, psicologicamente e letteralmente. Per strada le donne mi fermano per raccontarmi le loro storie, non riesco più ad andare al supermercato».

Amori malati e malevoli: si fatica a crederlo, ma anche tu ne hai vissuto uno.

«A tutti nella vita arriva un momento di difficoltà, un lutto, la perdita del lavoro, un problema finanziario. Si diventa vulnerabili ed è in quel momento che il manipolatore trova il suo spazio e attacca. Era appena morta mia nonna Angiolina, alla quale ero legatissima, sono cresciuta con lei: stavo male e sono caduta in una relazione disfunzionale. Se fossi stata in condizioni normali, neanche l'avrei visto quell'uomo. Invece è stato il mio compagno per due anni: il primo anno ha costruito, sembrava la soluzione a tutti i miei problemi. Il secondo anno invece ha distrutto: è iniziata una manipolazione che mi ha portato a dubitare di ogni mia certezza, addirittura della mia persona. Mi sviliva, mi umiliava. Alla fine ne sono uscita, ma quella relazione mi ha insegnato parecchio».

Oltre che in Tv, sei presente a teatro con diversi spettacoli. L'ultimo si intitola «Amami da morire».

«È nuovo e risponde a una forte richiesta sempre del pubblico femminile. Porto in scena l'autopsia di un amore tossico. Inizio con queste parole: Questa è la storia di un amore che è morto. Ma non è morto per caso, è stato ucciso. Da lì, il racconto procede proprio come un'autopsia: solo che sul tavolo settorio non c'è un cadavere, ma una relazione».

Anche tuo padre Domenico in un certo senso si occupava di indagini.

«Mio padre faceva parte della Polizia provinciale. Prima era stato guardiacaccia e si occupava di indagini legate al bracconaggio. Era un'attività che amava molto, stare immerso nella natura era la sua vita. Da lui ho preso la cocciutaggine e il caratteraccio che mi fa reagire duramente quando le situazioni non mi piacciono. E poi la passione per i motori. Lui amava le moto ma aveva paura di guidarle: così, quando gliene regalarono una di terza mano, fui io a salirci in sella. Avevo 12 anni, senza patente: un amore viscerale. Quando posso salgo sulla mia Ducati e parto: casco integrale, retina per raccogliere i capelli, giacca e pantaloni di pelle. A fine luglio andremo a fare un giro in Austria. Conosco i motori meglio di un meccanico. Le mie moto, anche le due Harley, sono potenti ed è questo che mi trasmettono: potere, forza, libertà, autonomia. Mi piace dominare».

Anche nel privato? E tuo marito Massimo Marino come se la cava?

«Benissimo! Anche lui è tosto, molto solido. Per quindici anni è stato il comandante operativo dei Nocs, il reparto speciale della Polizia. Poi gli hanno chiesto di trasferirsi due anni a Kabul, per l'ambasciata, un'esperienza forte: ci incontravamo ogni due-tre settimane a Dubai. Attualmente dirige un commissariato importante a Roma, si occupano anche di violenza di genere. È lui l'unica relazione significativa della mia vita, gli altri sono stati figuranti. Condividiamo molte passioni, anche quella di fare rock».

Nel senso che suonate insieme?

«Sì, facciamo parte di una band, la RockRiders Band. Io canto, lui suona la chitarra elettrica, per lo più cover degli anni '60-70-80. Ormai noi due siamo un monolite».

Torniamo a tua nonna: si può dire che sotto i suoi occhi hai svolto la tua prima indagine.

«Ero una bambina ribelle e quasi ingestibile. Abitavo con la nonna a Finale Ligure. La maestra, disperata, mi diceva che mi avrebbe mandato in castigo in una casa colonica che era lì in paese, tutta diroccata: per i bambini era un posto terrorizzante. E così una mattina, con altri due delinquentelli, ho fatto il mio primo sopralluogo: siamo scappati da scuola, abbiamo tagliato la recinzione di quella casa con le forbici della vigna di mio padre e ci siamo infilati dentro. Avevamo 7 anni. Siamo rimasti a esplorare tre ore, un'avventura esaltante. Intanto a Finale era però scoppiata la voce che tre bambini erano spariti! La maestra mi ha dato due giorni di sospensione. Però ha capito che certe cose a me era meglio non dirle, perché sarei andata a verificare».

Bambina scatenata. E adolescente, come?

«Un terremoto. Sportivissima, finché non mi ruppi una caviglia praticavo basket a livello agonistico. Avevo molti amici, andavo in moto e per questo qualcuno pensava che fossi lesbica, ma delle etichette non mi è mai importato. Se essere determinata a fare solo ciò che mi piaceva significava essere un maschiaccio, allora sì, lo ero. Molto poco addomesticata, poco docile, per questi aspetti forse poco femminile».

Però hai sposato tuo marito con un abito di pizzo bianco e una tiara in testa, come una principessa.

«E in spiaggia. Volevo stupirlo e ci sono riuscita. Al primo matrimonio, invece, mi presentai in Harley».

Ti sei mantenuta da sola agli studi.

«Completamente. Mia nonna mi mandò a stagione, come si diceva, a 14 anni. Lavoravo nella spiaggia di mio zio, qualsiasi cosa. Dopo il liceo, per mantenermi agli studi - Psicologia a Torino - ho fatto la cameriera nei locali e la barista in discoteca. Finivo la serata alle 4 di mattina e alle 5.30 avevo il treno per andare in università. Ce l'ho sempre fatta da sola: arrangiarmi senza chiedere aiuto e non dover dire grazie a nessuno è qualcosa che ho dentro».

Per settembre hai in serbo una novità che farà rumore.

«La racconto qui in anteprima. Con il collega e socio Alberto Caputo, sessuologo e psichiatra che si occupa di dipendenze relazionali, abbiamo messo a punto un chat bot studiato come supporto per disintossicarsi dalle relazioni tossiche, dedicato a chi vuole uscire da una dipendenza psicologica. L'addestramento di questa intelligenza artificiale è stato lungo e accurato: ora il software sa quello che so io, posso garantire che le sue risposte saranno attendibili. Consiglia a quali indizi prestare attenzione, interpreta i comportamenti dei manipolatori e ne mette in guardia. Una ventina di operatori specializzati, persone vere, subentrano all'IA se ci fosse un contenuto allarmante. Non è però un chat bot per il soccorso, attenzione. Chi lo interroga ascolterà una risposta dalla mia stessa voce: stiamo finendo di mettere a punto i parametri vocali».

Di che cosa hai paura?

«Delle malattie. Per il resto non mi impressiona niente, ho un'ottima gestione dei contenuti ad alto impatto, la mia mente ormai li padroneggia. Ma la malattia mi terrorizza: ho sempre vissuto al 110%, non saprei fare altrimenti».