A Milano, si sa, non siamo gente da romanzi gotici, pur andando fieri del nostro Duomo. La città vive di numeri, di industria, di conti che devono tornare. E proprio per questo, la notizia diffusa sabato dal Sole 24 Ore e ripresa ieri da tutta la stampa ha il peso di un macigno: la Consob ha stabilito, in modo netto e senza fronzoli, che nel caso Mps-Mediobanca non esiste alcun concerto. Punto.
Una presa di posizione che stride con l'ipotesi coltivata dalla Procura di Milano, che invece procede convinta che quel concerto ci sia. Ora, è normale che tra Consob e pm possano sorgere divergenze di opinioni. La magistratura ha poteri d'indagine che l'autorità di vigilanza non possiede: può acquisire scambi privati, verificare canali non accessibili al regolatore. Dunque, in astratto, la Procura potrebbe avere visto ciò che Consob non ha visto. Tuttavia, sul piano della lettura dei fatti finanziari, dell'analisi delle dinamiche societarie, dell'esperienza di mercato, Consob gioca in ben altro campionato. E se l'Authority arriva a dire «il concerto non c'è», pur sapendo che è in corso un'indagine della Procura, significa che la sequenza degli eventi, così come ricostruibile alla luce dei dati a disposizione, non porta da quella parte. Anzi.
Il punto è che questa discrepanza non sorprende affatto chi ha potuto leggere il decreto di sequestro firmato dai pm. Un atto che molti avvocati definiscono, senza giri di parole, acqua morta. Una raccolta di elementi sparsi, datati, frutto di palesi forzature, con riferimenti che cozzano grossolanamente con la ricostruzione molto più solida offerta da Consob. Nessuna pistola fumante. Nessun documento che certifichi un accordo volto ad acquisire o consolidare il controllo di una società. Nulla che vada oltre la fisiologica dialettica tra azionisti rilevanti e il management delle società controllate.
Eppure, basta sfogliare certi quotidiani del mattino per scoprire che il capoluogo lombardo è tornato ad essere la capitale della dietrologia. Il concerto? Per alcuni una sinfonia in tre atti in fase di esecuzione. L'accordo occulto? Un dato acquisito. Peccato che, negli atti oggi disponibili, lo spartito sia ancora bianco né si vede ombra di violini, timpani e direttori d'orchestra. Milano, quella vera, funziona diversamente: prima guarda i fatti, poi - eventualmente - scrive i titoli.
Il punto è semplice, e lo capirebbe anche l'ultimo dei pendolari della MilanoPavia: il concerto, nel diritto dei mercati finanziari, non è un'impressione né un'intuizione né la traduzione giornalistica di una simpatia reciproca. È un istituto preciso, che richiede un accordo - esplicito o tacito - volto ad acquisire, mantenere o rafforzare il controllo di una società. Non una convergenza di opinioni. Non tre voti simili. Non un orientamento strategico comune che nasce dalla normale libertà di giudicare una governance aziendale inadeguata. E, soprattutto, un concerto deve essere provato. Non intuito, non dedotto per suggestione. La dottrina è inflessibile: la comunanza di interessi non basta; la cordialità tra investitori non è un indizio; le dichiarazioni simili non sono prova di nulla. Nei rarissimi casi in cui un concerto è stato accertato, esistevano scambi di documenti, piani operativi comuni, architetture precise di poteri e ruoli. Nulla di simile nei frammenti interpretativi che si intravedono nel decreto di perquisizione firmato dai pm milanesi a carico di Francesco Gaetano Caltagirone, Francesco Milleri e Luigi Lovaglio. Qui siamo più vicini alla narrativa che alla giurisprudenza. È la Milano dei processi preventivi, quella che Manzoni raccontava attorno alla Colonna Infame: una città che, spaventata, trasforma un'ipotesi in dogma.
Poi c'è il paradosso che qualunque milanese coglie al volo: l'esposto da cui nasce l'indagine arriva dalla vecchia Mediobanca, quella guidata da Alberto Nagel fino a un mese fa. Ripetiamo: Mediobanca, il luogo dove, da Enrico Cuccia in poi, il voto coordinato, i patti di consultazione, le intese non dette ma perfettamente comprese sono stati non l'eccezione, ma la regola. Una vera cultura societaria, una religione, quasi un dialetto. Ma che credibilità può mai avere una denuncia su questi argomenti partita da Piazzetta Cuccia? Per di più corroborata dalle valutazioni di tale Giuseppe Bivona, il cui credito è polvere evanescente? Eppure, la Procura ha ritenuto di scendere in campo come fossimo di fronte a una flagranza di reato. Qui davvero la realtà supera la satira. È come se qualcuno denunciasse il Naviglio per eccesso d'acqua.
Nel frattempo, il danno è fatto, ed è reale: miliardi bruciati in Borsa, risparmiatori sconcertati, investitori internazionali che guardano l'Italia come un habitat imprevedibile, dove la dialettica tra soci (del tutto identica a quella che avviene nel mondo anglosassone) viene scambiata per manovra occulta. Sembra che il dissenso strategico, fisiologico in qualunque mercato aperto, da noi debba essere esercitato con la stessa prudenza con cui si maneggia un cerino acceso. Il timore, però, è che la parte più assurda debba ancora arrivare. Ovvero, che l'inchiesta in corso di fatto si traduca in un esproprio dei diritti degli azionisti in un momento cruciale per le società interessate. Per esempio, con quale spirito i principali soci delle Generali avvierebbero oggi la sostituzione del cda - un atto naturale per chi detiene una posizione di forza azionaria e ritiene inadeguata la governance? Sicuramente sarebbero frenati dal timore di un'interpretazione estensiva del concerto. Sicché, dovrebbero autocensurarsi per evitare che un voto non gradito venga scambiato per patto segreto.
In un mercato trasparente e regolato, questo è esattamente ciò che non deve accadere. La dottrina lo dice senza esitazioni: il pluralismo delle posizioni non è un delitto; la critica alla gestione non è un'illazione; la convergenza di vedute non è una cospirazione. Milano - la Milano vera - non si lascia impressionare da tre telefonate in più. Sa distinguere tra chi complotta e chi investe, tra chi trama e chi mette denari propri, tra chi costruisce potere e chi costruisce imprese. E, soprattutto, non confonde le opinioni con i reati.

